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Dissesto italiano: le tragedie e le parole del “giorno dopo”.


Non sarà l’ultima tragedia, e nemmeno la prima, a cui dovremo assistere inerti, senza poter cambiare qualcosa.

Ormai è questa la frase a cui dobbiamo abituarci ogni volta in questa nazione ed è la frase che, con lungimiranza, aveva affermato la maggior parte dei cittadini italiani appena tre anni fa, come di consueto.
La tragedia di Genova, che si è ripetuta nuovamente dopo quella del 2011, continua a sottolineare una cosa più di tutte le altre: in questo paese si è lucidi nei giorni appena dopo una tragedia.

È davvero un paradosso. Da una parte l’operosità di una città che non si stanca di rialzarsi, con i suoi cittadini che spalla a spalla si aiutano a vicenda, condividendo sempre il solito orrore dinanzi alla devastazione di quel fiume di acqua e fango che non si ferma dinanzi a nulla, dall’altra parte invece l’impassibilità, la scarsa concretezza di una politica che continua ad offendere nella dignità i propri figli, coloro i quali rendono quelle persone capaci di sedersi in quelle comode poltrone di pelle, sempre più lontani dalle cose reali, dalla città che cerca, dopotutto e dopo ogni tragedia, di rialzarsi perchè quando si è toccato il fondo non è possibile andare ancora più giù.
Il copione è sempre lo stesso. Giovedì notte si è intuito profondamente che davvero sarebbe stato  lo stesso quel copione, come tre anni fa, sempre nella solitudine.

L’acqua continuava a scendere copiosa, senza sosta. I torrenti che cingono ed attraversano la città continuavano ad ingrossarsi, anche loro senza sosta. Il risultato è semplice e si è ripetuto anche in questa tragica occasione.
Quel fiume di acqua scura e fango inizia a superare quegli argini, troppo teneri ed indifesi, e lentamente il suo letto cambia, non è più un piccolo corso racchiuso tra quei sottili argini, ma il suo letto ora è la città, le strade cittadine e non si ferma. Ogni cosa che incontra è persa, persa tra le sue onde, tra la sua forza devastatrice e quello che puoi incontrare per strada. Fermarlo è impossibile e così ti ritrovi a non saper che fare. Strade inondate, garage devastati, negozi divelti e spogliati di ogni bene da quel fango che non lascia superstiti. La forza di quell’acqua scura è impressionante.

Lo sanno bene quelli di Genova ma anche quelli di Sarno, quelli di Olbia\Nuoro, quelli di Grosseto, quelli in provincia di Messina, in Romagna, in Piemonte, in Calabria, in Versilia e potrei continuare all’infinito. Lo sanno anche chi era al governo in quel tempo e chi lo è oggi. Lo sanno perfino le pietre, che lente ed indolenti vengono trasportate da quella massa informe di acqua scura, cambiano dimora, si spostano e con esse si sposta il nostro territorio.
Dicono che sia la cementificazione, dicono che sia l’assetto urbano ad aver cambiato la geografia italiana. Terre su terre scomparse per far posto a cemento su cemento, case su case. Troppo per un paesaggio che pian piano scompare.
La notte passa ed intanto passa anche il tempo.
Tre anni fa sì, ma la piena che ha portato morte e distruzione a Treviso pochi mesi fa? Ad Ancona? A Modena?

Il giorno dopo è passato, ed è passata anche la tragedia vissuta in prima persona da molti cittadini.
I problemi intanto restano e resta un territorio troppo spesso martoriato e poco importante nella logica economica italiana, come tutto del resto. Si parla di lavoro ed intanto c’è chi sul lavoro muore per le scarse condizioni di sicurezza. Si parla di ripresa economica, di tasse, ed intanto c’è chi, oberato dalle problematiche economiche si lascia andare a gesti sconsiderati, preferendo la fine della propria vita, come unica soluzione.
Si parla di piano casa ed intanto c’è chi muore sotto le macerie per un dannato terremoto e perchè quella casa non era a norma. Si parla di istruzione e c’è chi muore sotto le macerie degli edifici scolastici fatiscenti, o chi muore nelle case dello studente, come a L’Aquila. Si parla di sanità e c’è chi muore sotto i ferri o chi muore per la superficialità del comparto sanitario. Si parla di territorio ed intanto si muore, ancora, sotto il fango, quell’immensa distesa di fango.
Si parla, quando si dovrebbe iniziare ad agire, perchè qui si muore e si continuerà a morire se non si metteranno da parte le parole.

Si parla, il giorno dopo, ed intanto si muore.

Cibal


Le illusioni di una generazione

Illusione

 

Era già da un pò che avevo voglia di analizzare quelle che io chiamo “Le illusioni della mia generazione“, cercando di comprendere cosa ci sia di cosí diverso oggi dalla spensieratezza che emergeva sempre dai racconti dei propri genitori che avevano la possibilitá di vivere completamente la propria vita, senza essere sempre in relazione ad un contesto in difficoltà e troppo vasto in cui è difficile comprendere il proprio ruolo ma dove è semplice capire di essere vittima della voracità di pochi, dovendo ogni volta rivoluzionare i propri obiettivi perchè il contesto si è trasformato completamente.
Capita spesso, se non sempre, di volgere il pensiero verso il tempo che è stato dei nostri genitori o per meglio dire, il tempo delle generazioni che ci hanno preceduti. Con altrettanta facilità si strutturano confronti con quelle generazioni su alcuni fattori che caratterizzano le nostre vite, in genere, veri e propri capisaldi ancorati alla vita stessa, quindi casa, lavoro, e collegati indissolubilmente a questi, spesso come il risultato di un processo lungo e tortuoso, ci sono la serenità e soprattutto la felicità.

Capita poi di dover destrutturare le proprie aspettative, tutte costruite attorno alle favole di quei tempi, il lavoro a tempo indeterminato, il lavoro statale che ti abbraccia dalla culla alla tomba, avere il tempo di coltivare con calma e pazienza i propri sogni, avere una bella famiglia e passare un pò di tempo in più con i propri figli.
Risulta, quindi, davvero difficile trovare un punto d’incontro tra questa e quelle vite senza intenderci, tutti, immersi in un mondo che va troppo veloce per noi. Non è tanto rintracciabile nella modernità questo carattere dinamico del mondo ma nel fallimento di quella struttura costruita sulla possente base del capitalismo, che trasforma tutto in merce. Le parole d’ordine che dovrebbero essere i capisaldi di uno sviluppo certo come merito ed uguaglianza sono state, anno dopo anno, barattate per l’ingordigia e l’avidità e quando queste sono divenute devastanti, ogni struttura od istituzione si è così riempita di superficialità, caratteristica principalmente collegata ai nuovi valori imperanti nella società.
Anche l’Università, essendo istituzione, si è trasformata in una fabbrica di sapere omologato, iperselettiva e vanesia sino al punto di tenersi i peggiori e cacciare i migliori , che spalle al muro venivano e vengono tutt’ora accolti dalle Università del mondo, estasiate dalla stoltezza italiana.

Il sapere è sotto il giogo delle élites accademiche.
Da Universitario quale sono, la mia riflessione risulta molto più semplice.
La comparazione tra il prezzo che si paga per un bene e la sua qualità, nell’Università, risulta alquanto indecorosa.
Soprattutto negli ultimi anni le Università si sono trasformate in bancomat mangiasoldi senza trasformare questi in possibilità concrete di vedere realizzato, o almeno iniziato, nella sostanza, quell’investimento. File indecorose, paragonabili a quelle della “social card”, per attestare che tuo padre è un morto di fame e quindi tu meriti la borsa di studio e non quello avanti a te, che ha un padre che lo fa mangiare giusto un pò in più, ma troppo per prendere la borsa di studio.
Eppure il prezzo della tassa regionale al diritto allo studio si è impennato del 120 per cento, gravando in modo esagerato proprio su quelle famiglie, escluse al fotofinish per la borsa di studio.
Così l’Università da bene pubblico, si trasforma in bene per pochi, solo chi può permettersi quei costi può entrarci, è solo per chi riesce ad ottenere per un pelo la borsa di studio (dimostrando a libretto di poter mantenere quella borsa di studio, altrimenti si deve arrangiare). Quindi ti devi arrangiare se un prof. ti prende di mira ed invece di utilizzare una scala di valutazione che va dal misero 18 al fenomenale 30 decide che la tua preparazione è a-valutativa, in questo caso “scarsa”, la tua storia alle spalle, i tuoi sacrifici, il tuo impegno passano in secondo piano e l’importante è che tu ripeta un esame 10 volte, senza intuire che c’è qualcosa che non va se ci sono tanti, troppi “suoi” studenti che quell’esame non riescono a superarlo.

Il risultato di tutto questo è semplice.

Criminalizzare gli studenti è stata sempre la strada più semplice da intraprendere per giustificare i numeri indecorosi dell’istruzione italiana, senza guardare al poltronificio creato ad hoc per accontentare gli amici degli amici, per ammansire quegli intellettuali che con unghie ben affilate proteggono le loro poltrone e che potrebbero rappresentare una minaccia per la stabilità del sistema.

Come è possibile che in tutti questi anni, non si sia fatto nulla per evitare l’emigrazione quasi totale del capitale umano prodotto a fatica da Università sempre meno pragmatiche in termini di sapere? Cosa c’è dietro alla mediocrità dell’Università pubblica italiana o il tutto deve essere sempre risolto nella constatazione di un privato, in Italia, sempre più avvantaggiato e reso invulnerabile dai favoritismi della politica arraffona e corrotta fino al midollo?

Pensate mai a come farete per sostenere tutte queste spese quando toccherà a voi costruire una famiglia col sudore della vostra fronte?

Io alle volte ci penso, forse troppo spesso, e le reazioni del mio corpo sono le più svariate. Mi gira spesso la testa perchè quando guardi nel vuoto non riesci proprio ad orientarti, hai perso ogni riferimento, quei riferimenti dove sei cresciuto con la tua famiglia e quindi inizi a perdere la percezione della realtà. Cerchi distacco ma sai di essere legato a quella vita, ma non sai quando ci sarà quella tremenda rottura rispetto al passato. Quel giretto ogni tanto per far passare quel disorientamento, quel gelato per raffreddare i pensieri più caldi e più persistenti che continuano a non dare tregua alla tua vita.
Il futuro oggi è quel vuoto, dove sai di non poter trovare nemmeno un appiglio, e l’unica cosa che ti è rimasta è paradossalmente la tua persona e la tua tenace voglia di galleggiare, ancora per un pò, centimetro dopo centimetro cercando di emergere da quella grande distesa di incertezza. Sai quanto vali ma non sai se è il tuo momento e fuori tutto è buio. Guardi chi prima di te non ce l’ha fatta e ti domandi cosa mai avrai di più tu per arrivare a quel traguardo. Ti siedi, mentre ancora la testa gira, e cerchi di concentrarti almeno sulle certezze, quelle che stenti a trovare.

Tu che sai fare?
Bah, a parte aprire un libro, leggerlo, impararlo e ripeterlo all’infinito per poi dimenticarlo rapidamente dopo aver sostenuto l’esame, proprio niente.

Sai scrivere?
Bhè me la cavo, ma niente di eccezionale a mio avviso, certo ho visto anche gente peggiore ma continuano a dirmi che anche il mondo dell’editoria è in crisi e che se non ti metti a quattro zampe e con un cappotto bello pesante sulle spalle non vai da nessuna parte.

Cibal


“Sin prisa pero sin pausa” ma intanto il tempo se ne va!

 

La svolta non c’è stata. Niente da fare nemmeno in casa, dinanzi al proprio pubblico che, seppur in un numero ridotto senza precedenti in questi ultimi due anni sotto la guida di Benitez, non si è risparmiato per tutto il match nel sostenere i propri beniamini, tranne poi esplodere a giochi conclusi con i fischi del tutto giustificati.
Così non va ed è sotto gli occhi di tutti. Nei primi 25 minuti tutto faceva pensare ad una goelada, una svolta, quella svolta che doveva buttare dietro ogni pensiero cattivo e tutte le voci di uno spogliatoio ormai rotto e le voci della difficoltà tangibile di riassestare il tutto da parte di mister Rafa. Alla prima incertezza ecco cadere quel castello di sabbia, troppo leggero per reggere un modestissimo Palermo che, dopo aver subito senza batter ciglio un uno due napoletano, subito è passato alle contromosse semplicemente utilizzando un modulo meno offensivo e più contenitivo, rimontando per ben due volte lo svantaggio. Il primo gol di Belotti ha riportato sulla Terra l’undici partenopeo che poi non ha più saputo mantenere la tranquillità di una grande squadra, quella che riesce a gestire un doppio vantaggio, quella che da anni a Napoli attendono ancora. Prima della fine del primo tempo di nuovo in vantaggio e poi raggiunta una volta ancora durante il secondo tempo.
Per il Napoli questa era la partita della verità.
Oggi parlare di crisi non è più avventato, anche perchè la Juventus e la Roma sembrano appartenere sempre a pianeti differenti rispetto alle altre contendenti del campionato italiano. La crescita della Roma in questi due anni è stata esponenziale ed è evidente la capacità di divorare ogni zona del campo da parte degli uomini di Garcia. Invece per la Juve si pensava ad un passo indietro dopo l’addio di Conte ma così non è stato, infatti Allegri ha subito apportato modifiche nel gioco, migliorando difatti il possesso palla, unica pecca del gioco devastante di Antonio Conte. Il Napoli, invece, è mancato e le cause non sono riconducibili ad una sola problematica.
Il mercato continua ad essere il limite di questa squadra. Nonostante la persistenza, rispetto all’anno scorso,  dell’appeal europeo elevato con l’arrivo di mister Benitez e giocatori di livello superiore come Higuain, Callejon ed Albiol, portatori sani di esperienza internazionale, sembra sempre che manchi qualcosa di necessario per un salto tra le grandi. Probabilmente la partenza di un elemento carismatico per tutta la squadra come il portiere Reina ha significato una minore compatezza interna dell’organico, che sembra ancora più sfaldato dalla continua inesistenza caratteriale e tecnica di capitan futuro Hamsik, che non ha ancora, e probabilmente mai avrà, il carattere del trascinatore. Sicuramente il cambio di modulo e probabilmente ancora l’incertezza derivante da un infortunio smaltito male a livello mentale hanno contribuito al suo difficile reintegro pieno e completo nei meccanismi della squadra.
I nuovi arrivi sembrano troppo timorosi ed a tratti non sembrano avere la piena adattabilità nel nostro campionato, sia dal punto di vista tecnico e sia dal punto di vista atletico, nonostante il nostro campionato sia in profonda crisi rispetto agli altri europei. Oltre tutti questi elementi bisogna sicuramente aggiungere l’assenza determinante di chi, come Higuain e Callejon e Mertens, ha contribuito l’anno scorso alla cavalcata in campionato, con record di punti e record di gol segnati. I limiti difensivi, però, permangono.
Dall’altra parte bisogna anche dire che Benitez è un tecnico troppo fedele al suo credo, nonostante l’evidente crisi di risultati contro avversari del tutto modesti. Non ricordo un inizio di campionato così leggero negli ultimi anni. Racimolare solo 4 punti, contro avversarie del calibro di Genoa, Chievo, Udinese e Palermo è davvero frustante per una squadra come il Napoli, che da anni gioca a fare la grande ed a costruire un progetto serio per rilanciare una realtà inimitabile al Sud.
Bisogna cambiare marcia e subito. Bisogna capire, ed anche il mister deve farsi un piccolo esame di coscienza, che cambiare strategia non significa per forza abbandonare i propri ideali anzi vuol dire maggiore capacità di comprendere e sintetizzare ciò che ci dice la realtà.
Considero Rafa Benitez un tecnico intelligente come pochi, con una spiccata capacità di leggere il calcio in un modo così completo che ti può spiazzare, però ora c’è bisogno di mettersi in discussione, c’è il profondo bisogno di cambiare registro e di mettersi in discussione, perchè già dopo la prima partita c’è stato chi ha messo lui in discussione. Non solo.
Anche nell’anno da poco concluso c’era una schiera, abbastanza folta, di suoi detrattori, nonostante i risultati sportivi sotto gli occhi di tutti. Vincere al primo anno un trofeo, seppur sottovaluto, come la Coppa Italia fa capire l’abilità di questo tecnico, troppo spesso bistrattato ma che ha dalla sua esperienza e risultati. Allora una svolta è necessaria, senza voler alimentare la presunta aria collerica che si respira nello spogliatoio corroborata da chi la stagione non voleva nemmeno iniziarla con questa maglia, perchè il Napoli non sarà una mai una grande squadra se non imparerà a sentirsi una grande squadra. Benitez in questo è un maestro, ora bisogna solo capire chi vuol essere suo allievo.

Cibal


Quando una barca fa meno rumore di un’altra nello stesso mare….

 

Ho inserito la canzone perchè mi ha accompagnato come sottofondo per tutto il tempo della redazione dell’articolo. Provate a leggere avviando il video  e probabilmente leggerete le mie parole provando le mie stesse sensazioni. Buona lettura.

 

Le immagini erano sotto gli occhi di tutti, senza ombra di dubbio e senza dare adito ad altre interpretazioni. Sempre le stesse da un bel pò di tempo, sempre le stesse a riempire le pagine dei giornali e dei telegiornali. Quelle immagini raccontano storie che spesso si fermano, come piccoli tasselli sacrificabili in una scacchiera grande, troppo grande. Come frutta matura che cade dagli alberi, loro cadono senza far rumore e senza richiamare l’attenzione di chi sa che esistono ma chiude gli occhi, per compassione o per scrollarsi da dosso colpe che, a torto, pensa di non avere. Tutti sanno che quella è frutta che quando è troppo matura cade ma non c’è mai nessuno a raccoglierla.

Altre persone che si aggiungono alla lista infinita di morti.

Altri morti, passati inosservati come sempre, che viaggiano in condizioni disperate per fuggire da stenti e sacrifici che tutta la popolazione europea messa assieme nemmeno immagina lontanamente, forse solo i nostri nonni conoscevano quelle condizioni. Un numero spropositato che crescerà sempre di più, crescerà senza ombra di dubbio, soprattutto per l’indifferenza generale; di indifferenza infatti nel nostro paese ne abbiamo davvero tanta.
L’indifferenza, quella che portò Moravia a scrivere “Gli indifferenti” proprio per evidenziare la profonda inerzia individuale che porta pochi ad esplodere per una sollecitazione morale della propria coscienza, mentre la maggioranza delle altre persone si siede comoda e si gusta lo spettacolo, che poi diventa parte integrante delle loro vite, però queste sono mobilissime a seconda del contesto che cambia, proprio per evitare di essere in minoranza. Incorniciando poi il tutto con l’imperituro “Odio gli Indifferenti” scritto da chi ha conosciuto sulla propria pelle l’emarginazione e la sofferenza come risultato della più strenue opposizione al potere che imperante si diffondeva in Italia, si può rendere perfettamente l’idea della difficoltà di un discorso inverso nella nostra nazione.

Così accade che essere dalla parte della tutela dei diritti inalienabili comporta una selezione degli individui che richiedono quella solidarietà, che più passa il tempo e più resta un mero ricordo negli occhi delle persone che hanno i loro corpi cosparsi di rughe profonde. Una selezione che si basa sull’appartenenza a questa oppure ad un’altra comunità, come se il richiamo originale non fosse più il genere umano ma una serie di sottocategorie, che al loro aumentare, di rimando, fanno crescere le discriminazioni al loro interno.
Quelle discriminazioni sono sempre alimentate dalle paure ataviche che hanno caratterizzato la razza umana e nonostante questa sia riuscita a sopravvivere per oltre duemila anni non è mai riuscita ad allontanarsi da quella voglia profonda della discriminazione, dell’evidenziazione delle sue differenze rispetto agli altri appartenenti allo stesso genere umano, che spesso e volentieri è alimentata da basi superflue che potrebbero facilmente essere superate tramite un uso adeguato della ragione.
A quelle di oggi si aggiungono quelle del passato ed è davvero difficile ritrovare nella storia un’era umana in cui questo non sia accaduto ma oggi dovrebbe essere diverso, innanzitutto, perchè oggi, più di prima, la soglia della fruibilità dei diritti si è abbassata decisamente rispetto a prima e poi perchè, oggi, l’idea di nazione si è trasformata. Proprio le migrazioni hanno influenzato questo lento cambiamento, frantumando l’idea di razza pura ed aprendo la possibilità all’estremo melting pot in ogni nazione del mondo.
Ed è proprio così che quelle che sono le proprietà inaleniabili degli esseri umani passano in secondo piano, certo non dappertutto, ma in buona parte del pianeta è così che funziona.
E quindi si arriva, giustamente, a solidarizzare per una nave che lentamente si inabissa e porta con sè le speranze dei viaggiatori, che erano lì per trascorrere un pò di tempo con i propri cari, divertendosi, e che mai avrebbero immaginato quella tragica fine, bambini, figli, padri, mariti, mogli e donne tutti accomunati dalla natura conviviale della loro presenza su quella città in mare…ma lo stesso non accade con una barca più piccola, più brutta decisamente, meno raffinata e decisamente più affollata. La differenza è nella pelle di quelle persone e nelle speranze che si legano a quel viaggio, un viaggio che nella maggior parte dei casi non finisce bene. Un viaggio che a differenza dell’altro inizia mesi e mesi prima, nel deserto di sabbia e terra, sotto il sole cocente, a bordo di camion che solcano il mare giallo. È già tanto riuscire a sopravvivere, Bambini anche qui, Madri anche qui, Padri anche qui, la pelle è diversa, i sogni anche, l’indifferenza verso loro sempre la stessa da anni ed anni.

Basterebbe davvero poco per cambiare le cose,  e così non permettere di trattare come merce sogni rinchiusi in corpi maltrattati dall’indifferenza. Basterebbe guardare oltre quel limite dei nostri occhi e delle nostre vite, basterebbe aprire semplicemente le porte alla speranza di un mondo diverso…

 

Cibal


La ricerca affannosa di un colpevole ma a perdere è sempre l’Italia intera!

L’Italia è fuori dai mondiali. Probabilmente la notizia ha fatto davvero tanto scalpore per il blasone che si porta dietro la nostra nazionale ma che da quel lontano 2006 stenta a confermarsi nei risultati europei, con le squadre di club, e mondiali, con la squadra nazionale.
Siamo usciti nel modo però più sofferente possibile, cioè senza nemmeno combattere, senza che nemmeno un giocatore in campo abbia avuto la voglia di mostrare rispetto per tutti quei tifosi che, come in ogni manifestazione calcistica, legano le proprie massime aspirazioni (magari sbagliando) a dei risultati, buoni o cattivi che siano. Tifosi che soffrono assieme alla squadra, che imprecano, che piangono e che gioiscono.
È finita nel peggiore dei modi ma, a dirla tutta, le sensazioni prima della partenza non erano proprio positivissime.
Mettici il coma profondo in cui versano le istituzioni sportive, troppe e troppo legate alle logiche delle poltrone, troppe e collegate indissolubilmente alla politica, in cui spesso si tuffano per riemergere come commissari straordinari o parlamentari\senatori ad hoc.
Mettici il grado di devastazione strutturale collegato ai nostri impianti sportivi, probabilmente tra i peggiori dell’area euro (in verità ora anche il Brasile ha stadi più moderni).
Mettici la crisi dei nostri club, indebitati per anni ed abituati a comprare a debito ogni “campione” per poi essere costretti più tardi a venderlo (per rimettere a posto i conti societari) a qualche sceicco con la passione del fantacalcio.
Mettiamoci poi anche lo scarso clima di protezione in cui si sentono immerse le famiglie quando vanno allo stadio, tanto da farle optare per un abbonamento a qualche fornitore di servizi televisivi via satellite, più comodo e soprattutto più sicuro.
Ecco il risultato, considerando tutto questo e legandolo al mal funzionamento dei settori giovanili che non permettono, difatti, la crescita di campioni in erba.

Però in Italia, in verità, funziona tutto diversamente. Da una parte ci sono i problemi e dall’altra le soluzioni, la buona coscienza del buon “cristiano” dovrebbe portare ad analizzare i primi( i problemi )e poi utilizzare le seconde( le soluzioni ) per riportare la situazione ad una condizione di equilibrio che fa bene innanzitutto a sè stessi, ma anche a tutti quelli che ci circondano e poi, perchè no, alimenta anche quel sentimento di attaccamento ad un territorio che atavicamente fa crescere in noi quella simpatia, quella gioia, quel fervore viscerale legato a dei colori secolari legati alla propria terra di origine, al di là del contesto a cui ci riferiamo, che sia sportivo o istituzionale, che sia sociale o culturale.

Dicevo che in Italia non funziona proprio così.
Certo, dico in Italia perchè in Italia ci vivo e spero davvero che sia una problematica solo relativa alla mia nazione, probabilmente che dipende da un certo limite alla crescita culturale e dalle fratture storiche ancora oggi presenti nel nostro paese.
Non funziona così perchè lo vedo tutti i giorni, e vedo ogni volta quella voglia estrema di ricercare un colpevole per tutto, quel compromesso tra la nostra innocenza e la colpevolezza altrui, che ci sia o meno poco ci importa, ma dobbiamo a tutti i costi trovare un colpevole a quel crimine, presupponendo che lo sia e dobbiamo esageratamente puntare il dito verso qualcosa, perchè abbiamo l’esigenza, quella sempre atavica, di sentirci innocenti, dalla parte della ragione e dalla parte della storia, che come si sa la scriviamo noi, noi che siamo i vincitori.

Questo è quello che è andato in scena subito dopo la fine misera della nostra nazionale al Mondiale ancora in corso in Brasile.

Sia gli addetti ai lavori( suoi colleghi compresi), sia l’opinione pubblica, sono stati concordi nel ritenere unico responsabile della disfatta nazionale l’attaccante Mario Balotelli, colui il quale era stato insignito più volte (da loro stessi), salvo poi ripensarci a seconda del suo comportamento non troppo “consuetudinario”, del titolo di “stella del futuro“.
Certo, innanzitutto, Mario Balotelli è un ragazzo che ha alle spalle una storia abbastanza complicata da raccontare in due sole righe, ma questa di sicuro non è una giustificazione a tutti i suoi comportamenti, buoni o cattivi che siano. Sicuramente, e senza ombra di dubbio, non è davvero bello scaricare colpe appena un minuto dopo la rovinosa debacle sportiva, specie da “senatori” quali Buffon o De Rossi, che magari avranno anche dalla loro l’esperienza di giocatori scafati da anni ed anni di competizioni italiane ed internazionali ma che poi cadono, a torto, su dichiarazioni che avevano il solo scopo di rendere pubblica una faccenda che era sotto gli occhi di tutti ma che aspettava solo una conferma.
Di Balotelli, intanto, a giorni alterni si legge sempre.
È sicuramente tra i più conosciuti, sia per le sue prestazioni in campo, altalenanti sicuramente e poi per gli eventi fuori dal campo che non hanno fatto altro che dipingerlo come un “bad boy“, cioè un ragazzo che non ha dalla sua la riflessività ma una persona troppo spesso impulsiva. Portare poi il colore nero della pelle, specie in Italia, è ancora più difficoltoso e non va di certo d’accordo con la riflessività, esclusa dall’aggettivo anglosassone “bad“.

Balotelli è l’ennesimo capro espiatorio di una vicenda iniziata male e finita ancora peggio e la stampa sportiva e non, su questa vicenda, come sulle altre, ci mangia volentieri.
Ci mangia perchè in Italia tutto questo ha terreno florido.
La stessa Stampa, col sorriso giornalistico di chi trova una notizia esplosiva, raccontava i fatti di Roma, prima della finale di Coppa Italia, facendo passare in secondo piano un assassino (alcuni giornalisti poi successivamente cercavano a tutti i costi di invertire i ruoli tra vittima e carnefice pur di dopare una faccenda già chiara dai primi momenti) mentre veniva criminalizzato un Ultras pittoresco, nel nome e nei fatti come ce ne sono tanti in Italia, per una maglietta.
Poi ,senza ombra di dubbio, il terreno florido c’è anche per le Istituzioni, quelle sportive e non, che si prendono le responsabilità solo quando fa comodo, solo quando si vince, per salire appunto sul carro dei vincitori, salvo poi scendere appena prima della disfatta o appena dopo, sentendosi a posto con la coscienza.

Allora non si dovrebbe parlare di colpevole, ma di colpevoli. Il colpevole non è uno, ma tutti perchè tutti dovrebbero prendersi la responsabilità di ciò che è accaduto in Brasile e ciò che è accaduto a Roma.

Balotelli non è il colpevole, almeno per questa vicenda, perchè Mario è semplicemente il prodotto di questo calcio moderno, questo calcio che è troppo legato allo spettacolo(non quello in campo purtroppo), troppo legato alla forma, troppo legato ai soldi. Non si può condannare una cresta e lasciare che un velo copra tranquillamente chi è stato allontanato dal calcio(e poi reintegrato) per l’accusa di aver truccato le carte in gioco.
Ancora adesso quel velo copre gran parte delle partite di tutto il mondo, il che porta a volte ad avere quel dubbio giustificato sulla validità di certi risultati sportivi, cosa del tutto naturale quando sai per certo che, ad oggi, c’è una buona percentuale di personaggi che lievitano attorno al calcio che non sono per niente interessati alla trasparenza dei risultati e vogliono tutt’altro. Dall’altra parte sai per certo che non solo fuori dal campo, ma anche dentro quel campo ci sono sedicenti sportivi anche loro poco legati alla trasparenza del risultato, che con la passione della scommessa, addirittura drogano i propri colleghi per modificare a tutti i costi un risultato.

Ora chi è il colpevole?

 

 

Cibal


Che colore ha la libertà? Un applauso non vale una maglietta.

C’è poco da stupirsi.
È bastato un solo evento sportivo, come spesso capita, un evento nazionale, per accendere i riflettori su problematiche che superano di gran lunga quelle calcistiche e del semplice tifo, ed interessano soprattuto le strumentalizzazioni, la disinformazione e il bagaglio pregiudiziale da cui ogni faccenda in questo belpaese attinge ogni volta.
Ma cominciamo dall’inizio e mettiamo un pò di ordine in questo fenomeno non solo italico.

Tutto è nato da una maglietta e da chi la indossava, diciamolo pure. Il pugno duro e quella dannata voglia di far vedere gli attributi dello Stato, scatenata da una maglietta e da chi la indossava, il figlio di un criminale. Troppo. Una maglietta pesante sicuramente per tutta l’opinione pubblica ma chissà quante volte è passata inosservata e nessuno ha gridato mai allo scandalo.
Eppure quella maglietta non ha sparato, anche se a quanto pare ha creato più danni della pistola che ha colpito l’ oramai celebre tifoso del Napoli, Ciro Esposito, che ancora oggi lotta per sopravvivere.
Sulla maglietta due parole semplici. Un cognome ed un aggettivo.
Ma lo scandalo che ha atterrito l’Italia intera non si è generato tanto per il nome Speziale, condannato per l’omicidio di Raciti, ma per la richiesta di “libertà” per una persona, quella persona, un altro criminale insomma. Cioè un figlio di un criminale che chiede la libertà per un altro criminale. Tombola.

Un criminale, neppure lontanamente da considerare alla stregua di una persona, che si è macchiata, così dice una sentenza e bisogna rispettarla, dell’omicidio dell’ispettore Raciti, a Catania.
Storicamente sono le famiglie dei condannati a chiedere la Libertà per i propri cari. Libertà, quella parola così semplice e leggera che assume un grande significato solo quando ti viene tolta, ma non solo.
Eppure c’è sempre qualcosa che non torna, qualcosa di imprevisto in ogni situazione, specie in questa. In genere sono gli avvocati a catturare il momento giusto, per inserirsi nella falla del sistema, come degli hacker, che trovano una porta aperta nei minuscoli, teneri cavilli della giustizia e vi si infilano, sfaldando una struttura pensata per reggere ad ogni urto.

Ed allora mi domando… Ma la Libertà si può chiedere?

Allora perché la libertà non si può chiedere?

Non entro nel merito di un processo ma nel merito di una richiesta che a mio avviso non ha nulla di eversivo.
Ancora una risposta non la riesco a dare, anche perché questo è il paese dei controsensi, dove un condannato può entrare tranquillamente nel Parlamento a dialogare con l’illustrissimo garante della Costituzione senza batter ciglio.

Allora perché questa libertà non si può chiedere?

Eppure per anni, ed ancora tuttora nel nostro paese, una scena simile l’ho già intravista, e la ricordo benissimo. Certo, certo la libertà si può chiedere ma dipende dal nome e soprattutto dal cognome che porti.
Poi ad un certo punto ti ritrovi a dover accettare, a malincuore, di far parte del circo mediatico a tua insaputa, perché una parte dell’Italia, quella unita per intenderci, viene ogni giorno tempestata di notizie dopate dagli esperti del settore, notizie buone solo ad alimentare il bagaglio pregiudiziale che dalla culla alla tomba accompagna ogni cittadino del Sud.
Certo, se la verità fosse un giocattolo, come a quanto pare sta diventando, ognuno avrebbe il diritto di perderci tempo con il suo uso, quindi girarlo e rigirarlo, fino a quando il giocattolo si rompe.

Ebbene il giocattolo si è rotto perché non si è mai saputo, e mai voluto, ambire all’allineamento alla realtà dei fatti come peraltro prevede una deontologia che lascia poco adito alle interpretazioni. Allora succede che una parte del paese, spesso vestita degli abiti della responsabilità morale dinanzi all’altra parte del paese, plaude all’entrata di assassini certi, senza ombra di dubbio, di un povero ragazzo (Federico Aldrovandi) , senza nome quella sera, colpevole di essersi trovato nel momento sbagliato e nel posto sbagliato. Vilipendio, anche e soprattutto, del ricordo e della giustizia. Però non è reato. Il reato è nel chiedere la giustizia per Speziale, colpevole di aver, secondo la sentenza ma non per chi chiede la revisione di quel processo, ucciso il commissario Raciti, mentre ricopriva il suo ruolo, e dopo tranquillamente montarci un caso, come sempre, per vendere il solito odio verso un intero popolo ed una secolare cultura.
Made in Italy dal 1861.

Allora?
Che colore ha la libertà?


Cronache di una morte annunciata. Nel “Mare Nostrum” continuano a morire mentre il mondo sta a guardare.

 

Le immagini parlano da sole. Tre minuti, tre minuti che dovrebbero essere strazianti per chi come noi quelle immagini le guarda ovattato nella propria abitazione, dietro quegli schermi che di emozioni difficilmente ne trasmettono.
Il video diffuso da Repubblica è tutto questo.
Quel barcone che lasciato al proprio destino ha accettato il mare come una nuova terra, e quei corpi che fidandosi del destino, quello per loro troppo crudele, si son lasciati andare. Corpi una volta pensanti, corpi che speravano in un futuro migliore ma che il mare ha richiesto per sé. Corpi che placidi ora fanno parte del mare, quel mare che doveva semplicemente essere un percorso come tanti, magari ugualmente difficoltoso a quelli fatti sulla terra prima di giungere a quella barca. Sì perché il mare è l’ultimo percorso dopo un’intera vita, o non vita, fatta di speranze e di stenti. Poi dall’altra parte speri che ci siano persone come te, che magari capiscono la sofferenza, magari intuiscono da cosa scappi, del perché scappi. Magari sogni già quel futuro che i tuoi genitori, pagando quella somma raccolta per tutta una vita di stenti per quell’ultimo viaggio, speravano si esaudisse.
Ma c’è il mare, e ci sono gli uomini, quelli dall’altra parte. Quelli dal colore bianco,diverso dal tuo, ma a te non importa perché sai che andrà bene, perché i sacrifici che farai nel “nuovo mondo” non saranno niente in confronto alla guerra da cui sei scappato, dalla fame che hai patito e dalla vergogna a cui pensi sempre. La vergogna di indossare quel corpo martoriato, la vergogna di appartenere all’altra parte del mondo, quella che dovrebbe essere considerata vittima ma che, e non te lo sai spiegare, diventa in quei paesi lontani sempre la colpevole. Tu scappi, ed il resto non conta, forse per loro conta, loro che non sanno da cosa fuggi e non vivono la guerra come te e la guardano solo da un apparecchio che al tuo paese, addirittura, a stento ti puoi permettere.
Allora non riesci a capire tutta questa differenza. Perché una guerra e perché dall’altra parte ci guardano impietriti, senza aiutarci, come se fossimo portatori di tragedie. Sai che porti solo la tua vita, le tue speranze, la tua dignità e non quello da cui fuggi. La guerra rimane dove è sempre stata, ripeti a te stesso che tu stai solo fuggendo sperando di salvarti. E mentre pensi tutto questo sei già in viaggio, stipato accanto a tanti come te, che hanno paura, quella così simile alla tua. Senti che forse non lo meriti, ma sta accadendo davvero. Un destino simile per tutti. Quella paura che gli altri provano su quella barca sembra corromperti, si diffonde anche dentro te. Sfiori gli altri e senti che sarà difficile superarla. La paura di morire e di non essere accettato e di aver rischiato troppo. Il tempo passa senza cibo, e senza acqua. Ma tu hai fiducia degli altri. Perché dovrebbero essere diversi? Sono esseri umani come te. Hanno patito anche loro la fame nella loro storia. Poi pensi a tuo cugino, a tuo zio, ai tuoi fratelli di cui non sai più niente. Erano partiti anche loro tempo fa, ma non si sono fatti più vivi. Quella desolazione ti attanaglia e non ti lascia.
Mentre la barca lentamente si inabissa pensi a quel futuro che tanto desideravi. Volevi semplicemente essere felice e mentre pensi le forze ti vengono meno e capisci che non hai mai nemmeno avuto il tempo di imparare a nuotare perché quell’acqua a stento l’hai vista nella tua vita. Acqua per bere, quindi figuriamoci per nuotare. Affondi e chiudi gli occhi mentre la tua storia, e tutti quei pensieri affondano con te mentre il mondo continua a guardarti passare come polvere nell’aria. Non ti afferra perché non ti vede, sei invisibile ai loro occhi ed intanto pensi di non meritarla quella fine.

Quante storie ci sono passate accanto, quante ancora ne devono passare e si devono chiudere in questo modo per accorgerci che pian piano stiamo perdendo il senso della morte. Quella morte che poi, in fondo, tutti temiamo ma che non sappiamo come evitare. La morte ha un’unica nemica, la felicità. Se sei stato felice, sempre felice, accetti la morte serenamente. Ma se come loro, lotti dal primo momento in cui sei nato, per combattere per quella felicità, la morte non l’accetti e cerchi di combatterla ogni volta, fino a quando ti lasci andare perché non c’è più speranza dentro di te.
Eppure a noi, quelli dall’altra parte del mondo, la morte, quelle morti non ci smuovono più, ogni giorno ne muoiono a migliaia nel “Mare Nostrum”. Sono accanto a noi, nel mare senza saperlo, perché in quel mare sono stati sconfitti e la morte ha prevalso sulla loro tenacia. Sono accanto a noi quando andiamo in vacanza imperterriti, sapendo che dall’altra parte quel mare non è felicità ma morte, sofferenza ed assieme speranza. Noi ci divertiamo a mare, ci rilassiamo e non ci domandiamo perché una stessa risorsa, una risorsa per tutti, debba essere fonte di felicità per noi e per qualcun altro fonte di sofferenza.
Stiamo perdendo il vero senso delle cose e sappiamo il perché: perchè è questa la morte.


L’Italia vira sul monocameralismo. Ecco la democrazia monarchica di Renzi.

 

L’italia tra le varie nazioni europee, probabilmente assieme alla Francia ed alla “povera” Grecia, è in un periodo di profondo fermento politico.
Sono bastati solo pochi mesi dall’insediamento del “nuovo” governo Renzi, nato dopo la famosa spallata dell’ex sindaco di Firenze all’ex primo ministro Letta, per vivere in questo periodo un inconsueto fermento, sotto il punto di vista politico, per le repentine riforme, ora di parvenza ed ora strutturali, che cercano di far cambiare in modo decisamente positivo il destino della nostra nazione.

Non a caso la recente riforma sulle province, grazie alla decisa opera lusinghiera dei media, si è trasformata difatti agli occhi dei cittadini in un processo di rinnovamento totale e strutturale dell’ordinamento amministrativo del nostro paese, traducendosi secondo i sostenitori del cambiamento in un progetto salvifico per le casse italiane. Peccato per il piccolo particolare tralasciato dai soloni di turno, cioè un decreto legge semplice non può cambiare, notoriamente, la Costituzione Italiana, che difatti prevede ancora l’ordinamento amministrativo delle province. Non solo.
Secondo i fautori di codesto disegno di legge, ora approvato, tutto questo porterà un alleggerimento economico sostanzioso delle casse statali, che ci sarà sicuramente ma non sarà così “sostanzioso” come vogliono far credere. Ciò che, nella sostanza, porterà questo nuovo decreto legge, sarà rendere più leggere le province, svuotandole e cercando di eliminare alcune cariche e pochi compensi “direttivi”.
I risparmi quindi saranno molto modesti, e quella che veniva ad essere dipinta come una riforma completamente “nuova” e “radicale” rispetto agli anni appena passati, senza il governo del “rottamatore” Renzi, viene a denotarsi come una riforma come tutte le altre, cioè profondamente incompiuta e molto “scenica”.

La manovra, invece, che preoccupa molto di più, è quella relativa all’abolizione del Senato e la sua trasformazione nella cosiddetta “Camera delle Autonomie”, spogliata dal potere legislativo e vestita del potere meramente consultivo. Il Monocameralismo non è un’esperienza così nuova nel nostro mondo ma bisogna considerarlo nel contesto in cui si è sviluppato e nel contesto in cui si è radicato.
Le nazioni ad adottare questo sistema sono la Svezia, la Danimarca, l’Islanda, ed in parte anche il Regno Unito, che seppur retto da un sistema bicamerale de iure, de facto una delle due camere ha solo funzioni cerimoniali ed ha pochi poteri.
Questo però non significa che l’esistenza del monocameralismo in pochi paesi europei debba essere usato come modello di democrazia pura a cui ambire, oppure omologare il proprio sistema governativo perché si ritiene che questo sia “adatto” alla nostra cultura. La cultura governativa italiana, come è noto, è stata costruita attorno ad un bicameralismo perfetto e sarà piuttosto dura digerire la volontà, da parte dei nuovi arrivati, di una rivoluzione non solo strutturale ma anche e soprattutto culturale nella nostra nazione.
Ad avvalorare questa tesi sicuramente c’è la fase storica attraversata dai partiti italiani dopo lo scandalo di Tangentopoli, che ha portato difatti i partiti italiani ad omologarsi sulla scia della destra e della sinistra europea, cercando di giungere al tanto agognato, mai raggiunto pienamente, Bipolarismo.
Sicuramente le recenti elezioni non hanno fatto altro che demolire la logica bipolare evidenziando, con l’emergere del Movimento 5 Stelle, una difficoltà oggettiva nell’elettorato italiano nel dividersi ai soli due esistenti poli politici.
Quindi la decisione di presentare una proposta così coraggiosa e così strutturalmente rivoluzionaria non fa altro che marcare la volontà del “nuovo arrivato” Renzi di sparpagliare le carte in tavola, cercando di virare su manovre non del tutto così necessarie per il nostro paese, nonostante i proclami sul risparmio che questa arrecherebbe alle “povere” casse dello Stato. Bisogna risparmiare è vero, ma bisogna anche capire che non si può barattare l’equilibrio dei poteri per la logica del risparmio, senza considerare che difatti, al governo non c’è una maggioranza riconosciuta nell’elettorato. La logica del risparmio in uno Stato è sacrosanta se nella sostanza è equilibrata e non porta solo a manovre strutturali ed eclatanti per convincere i cittadini, che ormai non hanno più fiducia nelle soggetti istituzionali.


Il nuovo governo Renzi : l’abitudine di usare “Giovane” e “Donna” come sinonimi di “Meritocrazia”

Da poco si è conclusa la breve conferenza del neo presidente del Consiglio Renzi, che sciolta la riserva, ha subito presentato la squadra di governo, che domani alle 11 verrà ufficializzata.

Alcuni elementi sicuramente non possono passare inosservati.

Uno su tutti è la svolta sul piano della notorietà delle persone indicate a ricoprire l’importante ruolo di Ministro della Repubblica Italiana. Non tutti sono personaggi conosciuti nell’ambito politico, tranne per qualche nome ancora e terribilmente “istituzionalizzato”.
Per dovere di cronaca però tra i vari ministri, c’è chi come Padoan, che ricoprirà il ruolo di Ministro dell’Economia, è più associabile alla logica della continuità dopo i governi Monti e Letta, dato che è definibile maggiormente come un tecnico e non come un politico.

Non solo.

Il secondo elemento abbastanza palese è la presenza maggiore, rispetto ai precedenti governi, di ministri di sesso femminile, ma questa constatazione, a mio avviso, non comporta un nesso inscindibile sotto l’aspetto del merito o di una migliore capacità delle stesse rispetto ai colleghi di sesso maschile.

Eh già, perché nella logica dell’equiparazione delle posizioni di prestigio da ricoprire ci può anche stare questa scelta, ma oggi questa mossa viene più letta come tendente alla forma piuttosto che con la volontà di entrare nella modifica totale della sostanza, dato che queste persone derivano, appartengono ed agiscono in nome dell’ideologia partitica moderna.
Quindi la soluzione non deve essere più, a mio avviso, letta sulla base della differenza di genere, ma sulla base della differenza di merito e quindi di capacità, anche perché generalizzare il possesso di abilità solo perché si fa parte di un determinato sesso, è lesivo anche e soprattutto per quel sesso stesso.
Questo discorso però non può fermarsi soltanto al discorso dell’appartenenza ad un genere o all’altro, ma anche quando all’interno di discorsi “istituzionali” viene brandita, con orgoglio, la parola “giovane”, come per indicare una discontinuità, non tanto per merito, rispetto al passato, dove la percentuale era davvero esigua quando si parlava di facce meno scavate dalle rughe.
Anche in questo caso, piuttosto che soffermarsi su una mera constatazione della differenza di età, a mio avviso, si dovrebbe sempre farsi condizionare sul merito e sulla capacità nel decidere chi debba ricoprire un determinato ruolo “istituzionale”.

Non è possibile, infatti, evidenziare come merito l’essere giovane, quando difatti non si conosce , in modo netto, il limite dopo il quale si è vecchio e prima del quale si è giovane, se non si hanno le conoscenze adatte a ricoprire un ruolo, che nella maggior parte dei casi necessita di un bagaglio esperienziale derivante soprattutto da una profonda assimilazione delle conoscenze di base in un percorso abbastanza lungo.
Questo, appunto, tradotto vuol dire che il ruolo del Politico non è affatto cosa semplice, ma nemmeno così complicato come in questi anni si è voluto far credere.

Si è sempre affermato come fosse più semplice criticare che governare e difatti, nei continui passaggi di testimone tra gli schieramenti politici, la tiritera vicendevole si basava sulle critiche all’azione politica precedente al proprio mandato, dimenticando che negli anni tutti i partiti si sono succeduti, con scarsi risultati dal 1994 in poi, evidenziando una decadenza non solo strutturale ma anche e soprattutto valoriale nel nostro paese rispetto agli anni precedenti.
E così la passione politica è venuta a scemare, sopraffatta dalle considerazioni venali legate indissolubilmente agli interessi personali.

Oggi una nuova generazione politica sta emergendo, cercando di accantonare ogni legame col passato, sia esso valoriale o puramente politico, e facendo leva sulla cattiva politica di questi anni che, invece di tessere nuovamente il reticolo dei rapporti con la società civile sulla base della fiducia, si è sempre più rintanata nei salotti “perbene” cercando di corroborarsi sempre più ai danni dei cittadini. Oggi però questa nuova generazione sembra sempre più leggere la società sulle basi del passato, ma non dal punto di vista ideologico, ammantandosi difatti di un nuovo europeismo scevro da ideologie ataviche e fastidiose, secondo il loro punto di vista, ed abbracciando in tutto e per tutto la dialettica spesso fumosa ed inconcludente volta di più alla forma piuttosto che alla sostanza.

Il problema della rappresentanza politica, oggi più di ieri, si fa davvero sentire in questa “selva oscura.

Cibal


La spallata del segretario al governo : premeditazione o cambiamento?

 

La riserva è stata sciolta ed il Partito Democratico ha deciso. Alla direzione del partito, il voto unanime della base ha decretato l’abbandono del sostegno all’ormai ex premier Enrico Letta, con 136 voti favorevoli si è appoggiata la mozione Renzi, che ha richiesto una svolta per il paese, a partire dal rimpasto governativo.
Nonostante alcune dichiarazione, tra le quali quella di Civati, chiaramente contrarie alla linea del neo segretario, che da un giorno all’altro ha deciso che fosse giunto il momento della sterzata decisiva nella guida del partito chiedendo la testa di Letta, il risultato della votazione gli ha dato ragione.
Senza una linea ben precisa e senza alcuna motivazione chiara e palesata, Renzi ha deciso.
La base ha seguito la linea intransigente del segretario, ricusando chi appena un giorno prima era l’emblema e l’orgoglio del Partito, appunto l’oramai dimissionario Enrico Letta.

Le ragioni di questa scelta repentina probabilmente vanno ricercate nella volontà di Renzi di cambiare radicalmente, secondo il suo punto di vista, la marcia di questo governo.
I problemi principali, e le relative conseguenze di questa scelta però, non si possono facilmente evitare.

Innanzitutto il primo sgarbo del sindaco di Firenze al “manifesto” presentato e palesemente “venduto” a partire dalla sua prima campagna elettorale , perpetrato ai danni di chi credeva in un uomo politico diverso dai suoi predecessori, è stato fatto nel momento in cui il sedicente rottamatore ha incontrato, non il leader di una compagine di opposizione, ma un uomo politico aggrappato in tutti i modi ancora alla politica nostrana seppur condannato in terzo grado per un reato decisamente vile come la frode fiscale.
Non a caso buona parte della direzione del Partito Democratico, non contando chi lo ha sempre difeso a spada tratta nonostante tutto, si è dovuta barcamenare in qualsiasi modo per evitare una debacle verso i propri elettori, quasi certi di non vedere per l’ennesima volta un Berlusconi riabilitato alla Politica che conta da parte del proprio partito. Purtroppo poi non accontentati proprio da questo incontro.

Il secondo grave sgarbo invece è nel merito dell’incontro. L’esigenza di una legge elettorale per ridare un senso e governabilità dopo le elezioni suonava più come un concordato vecchio stampo, sempre in politichese, quello che il segretario Renzi disprezzava prima di farsi votare.
Eppure in due giorni ha deciso di assumersi la responsabilità storica della ri-edizione del Porcellum, travestito da legge elettorale completamente diversa, proprio con l’artefice di quella legge anti costituzionale, quindi decretando di fatti, la genuflessione del suo partito alle logiche utilitaristiche dell’ormai ovvio Berlusconi.

La speranza e l’auspicio di tutti gli elettori di centro-sinistra probabilmente è quella di non aver dovuto assistere per l’ennesima volta alla premeditazione di questa spallata al governo, nell’intento di smantellare definitivamente il moribondo PD e di voler emarginare il Movimento 5 Stelle nel caso di una imminente tornata elettorale.
Questa scelta però non può non dare manforte ad una probabile visione berlusconiana sulla base di una rivincita politica verso chi si è sottratto al suo partito unico, dopo la sua condanna, nonostante rappresentasse il prodotto e l’invenzione di Berlusconi, cioè il vice ministro Angelino Alfano.
Anche se un’altra plausibile visione vedrebbe la scissione del “Nuovo Centrodestra“, più che altro come un’azione di facciata, per mantenere la credibilità di una porzione di quei rappresentanti politici per il momento e quindi poi nelle prossime elezioni correre nuovamente assieme, abbracciati come sempre.
Questa è probabilmente una scena più consona e comune nel nostro paese, che dal 1990 in poi non ha mai conosciuto una parvenza di stabilità politica, dirigendosi sempre negli anfratti della mediocrità politica, economica e sociale.

“Il problema è che a pensar male degli altri si fa peccato ma spesso ci si indovina.”

Cibal


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